LA LIBERAZIONE DI TRIESTE DALL’ASSEDIO
“Non è vero che gli uomini contano più delle macchina; al contrario, la macchina migliore guidata da un uomo migliore – il comandante – può neutralizzare il peso dei grandi battaglioni. Le armi e l’addestramento contano assai più della semplice superiorità numerica”.
Sir Basil Henry Liddell Hart
Ricorre il centenario dello sfondamento di Caporetto – Kobarid. È certamente una delle battaglie più famose della Prima Guerra Mondiale. È un fatto d’armi così rilevante che è diventato, specialmente in Italia, sinonimo di disfatta, cedimento e fuga davanti al nemico nella dissoluzione stessa di uno Stato. Ma questa è una chiave di lettura fuorviante di quanto realmente accadde cento anni fa in quel tratto di fronte delle Alpi Giulie ritenuto impenetrabile e quindi sicuro.
Perché è anche il confronto tra società e culture diverse: quella austroungarica e tedesca a confronto con quella mediterranea italiana. Mitteleuropa e Prussia contro il giovane Stato italiano nato nel sangue della feroce unificazione nazionale imposta dai Savoia nel nome degli interessi di altri Stati.
E di questa unità forzata, che aveva visto la dissoluzione dei regni per arrivare alla creazione di uno Stato monarchico con mire colonialiste frutto della peggiore emulazione delle ormai decadenti politiche espansioniste delle principali potenze europee, la partecipazione alla Prima Guerra mondiale doveva essere il suggello, l’ultima guerra di “indipendenza” contro l’odiato nemico secolare: l’impero austro ungarico.
Ma l’Italia che aveva aggredito l’Austria dichiarandole guerra il 23 maggio del 1915, era l’ex alleato, schieratosi con le potenze dell’Intesa (Regno Unito, Francia, Russia) dopo avere rinnegato l’alleanza con Germania e Austria, e per potere ottenere le massime compensazioni territoriali a danno dei due ex alleati.
La scelta di entrare in guerra nel momento di massima debolezza dell’Austria, stremata dopo dieci mesi di durissima guerra sul fronte orientale dove le truppe russe erano riuscite a sfondare occupando la Galizia ed arrivando alle soglie dell’Ungheria, confermava l’infamia di un tradimento che da quel momento sempre sarebbe gravato sull’Italia. Una politica, quella italiana, dell’opportunismo cinico nel disprezzo di ogni patto e di ogni principio di lealtà che d’altronde si sarebbe ripetuta anche nel Secondo conflitto mondiale.
La difesa austroungarica sul fronte terrestre con l’Italia, che si estendeva per circa 600 km dalle Alpi al Mare Adriatico fu attuata sfruttando le caratteristiche del terreno e resistendo con successo alle continue offensive, ben 11 in due anni e mezzo portate dall’esercito italiano in particolare sul fronte dell’Isonzo. La conquista di Gorizia e di un pezzo dell’altopiano della Bainsizza furono gli unici risultati di battaglie costate all’Italia centinaia di migliaia di morti. Ben lontani, quasi irraggiungibili gli obiettivi principali di questi attacchi: Trieste, primo porto dell’Impero, e Lubiana.
Ma anche i difensori, che si trovavano a reggere gli attacchi di un nemico numericamente e materialmente molto superiore, ebbero perdite elevate: ogni battaglia sul fronte dell’Isonzo divorava dai cinquanta ai centomila uomini. Perdite difficilmente rimediabili, vista la carenza di organici di un esercito che doveva combattere su tre fronti (orientale, Balcani, italiano), e gli effetti sempre più pesanti del blocco navale imposto agli imperi centrali.
Trieste aveva patito duramente i primi due anni e mezzo di guerra con l’Italia, venendo praticamente messa sotto assedio, con il fronte che si avvicinava di offensiva in offensiva fino ad arrivare nell’estate del 1917 a ridosso della linea della fortezza Hermada a 20 km dalla città. Due anni e mezzo di bombardamenti aerei e navali che avevano già causato decine di vittime e che insieme al blocco del traffico navale avevano messo in ginocchio quelle che era uno dei più grandi porti europei.
Trieste aveva perso circa 100.000 abitanti dall’inizio della guerra e nel 1917 i suoi abitanti vivevano nel terrore della sempre più probabile offensiva finale italiana che avrebbe portato all’occupazione della città. La strenua difesa dell’Armata dell’Isonzo di Boroevic bloccò anche l’ultima e più cruenta delle offensive italiane, l’11a battaglia che si infranse sulla linea difensiva dell’Hermada.
Ma la 5a Armata austroungarica questa volta era andata vicino al collasso: bisognava quindi ricacciare il fedifrago nemico sulle sue posizioni di partenza, oltre l’Isonzo per permettere la ricostituzione dell’esercito imperial-regio in vista di una nuova offensiva da attuarsi sul fronte meridionale nella primavera del 1918, grazie anche all’uscita di scena della Russia.
Prendere tempo quindi. Mentre gli alleati tedeschi avrebbero fatto altrettanto preparando le offensive sul fronte occidentale: il 1918 sarebbe stato l’anno decisivo. E’ così in effetti fu, anche se i piani degli Imperi centrali non avevano tenuto in debito conto l’impatto dell’entrata in campo degli Stati Uniti, che come poi si dimostrò fu determinante sul fronte principale, quello francese.
Ma per portare un duro colpo all’Italia le forze austroungariche non erano sufficienti; da qui la richiesta dell’Imperatore Carlo all’alleato germanico di mettere a disposizione divisioni tedesche per un’offensiva congiunta.
A settembre, mentre non era ancora terminata l’11a battaglia dell’Isonzo, il vice capo di stato maggiore dell’esercito tedesco Ludendorff acconsentendo alle richieste austriache incaricò il Tenente generale Otto von Below di preparare un’offensiva di alleggerimento sul fronte centrale dell’Isonzo mettendo a disposizione 7 divisioni tedesche. Si trattava naturalmente di truppe scelte e ben addestrate con reparti di montagna tra le quali il famoso Alpenkorps bavarese in cui militava l’allora giovane tenente Erwin Rommel.
La predisposizione del piano d’attacco venne affidata al tenente generale Krafft von Dellmensingen che dopo accurati sopralluoghi sul fronte dell’Isonzo individuò il punto migliore per lo sfondamento nel settore di Tolmino-Caporetto che ben si prestava allo sfruttamento strategico.
Venne così costituita la 14a Armata austro-tedesca composta da 15 divisioni (7 tedesche e 8 austro ungariche). Si trattava di truppe scelte e adatte ad operare in alta montagna: oltre all’Alpenkorps tedesco, vennero schierati i reggimenti bosniaci, i Kaiserjäger, gli Schützen. Truppe d’elite per un attacco specialistico come quello preparato.
La mattina del 24 ottobre 1917 dopo un breve bombardamento concentrato sulle principali difese le truppe austro-tedesche attaccarono travolgendo le linee difensive italiane ed arrivando ad occupare Caporetto con un’avanzata di 27 Km al termine della prima giornata di battaglia.
Lo sfondamento permise di aggirare le ali difensive italiane tagliando i collegamenti tra la 2a e la 3a Armata italiane. Per lo sfondamento determinante iniziale le truppe austro-tedesche avevano utilizzato la già sperimentata tattica utilizzata pochi mesi prima sul Carso triestino dell’impiego delle Sturmtruppen, le squadre d’assalto che formate da pochi uomini ben addestrati e ben armati, anche con mitragliatrici portatili, scardinavano le difese avversarie seminando il panico.
Alla fine della prima giornata la battaglia era praticamente già vinta. Le truppe austro-tedesche dilagarono poi in pianura accerchiando i capisaldi difensivi ancora in mano agli italiani sui monti, che caddero inesorabilmente nel giro di pochi giorni. L’ordine della ritirata generale (mentre i reparti erano già in rotta) fu dato dal generalissimo Cadorna già il 28 ottobre, ritirata prima sul Tagliamento e poi, dopo che i bosniaci della 55a divisione austroungarica lo attraversarono costituendo la prima testa di ponte il 2 novembre, fino al Piave.
La ritirata si trasformò rapidamente in rotta e l’intera 2a Armata cessò di esistere come corpo combattente. Almeno 400.000 i prigionieri della peggior disfatta che avesse mai subito l’esercito italiano. Ma l’esito dell’offensiva sorprese gli stessi attaccanti che non riuscirono a sfruttare fino in fondo quello che avrebbe potuto essere il colpo mortale per togliere dalla scena della guerra l’Italia.
In effetti le forze destinate all’offensiva erano troppo esigue per potere andare oltre ad una limitata avanzata di 20-30 km. L’allungamento delle linee di rifornimento e la precarietà delle linee di comunicazione rese poi difficile garantire i rifornimenti alle truppe avanzanti che spesso si ritrovavano così con carenza di viveri e di munizioni.
Caporetto avrebbe potuto diventare una vittoria totale se si fosse bloccata la ritirata italiana prima del Tagliamento, attraversato il quale le esauste truppe italiane poterono arrivare fino alla nuova linea difensiva del Piave e ricostituirsi. Ma appunto per una manovra a tenaglia accerchiante per chiudere in una sacca le Armate italiane in ritirata sarebbe stato necessario disporre di almeno altre dieci divisioni tenute in riserva: divisioni che non c’erano.
Una causa da non sottovalutare sul mancato pieno sfruttamento del crollo italiano è anche (a parte gli attriti tra comandi tedeschi e austro ungarici per accaparrarsi la “gloria” decidendo, e alla fine non facendolo, chi avrebbe dovuto sbarrare la ritirata italiana) quella che riguarda le condizioni delle truppe attaccanti: soldati spesso ridotti alla fame che cercavano prima di tutto i viveri del nemico (questo per effetto della mancanza di materie prime e generi alimentari causata dal soffocante blocco navale dell’Intesa agli Imperi Centrali).
Secondo il Liddell Hart:
“I ben forniti depositi di vettovaglie dell’esercito italiano furono una tentazione troppo forte per i denutriti attaccanti, il desiderio di mangiare raffreddò alquanto il desiderio di inseguire e l’improvvisa congestione degli stomaci accelerò la congestione dell’avanzata. È significativo che persino un comandante di divisione tedesco, il generale Lecquis, potesse esultare di più per la cattura da parte dei suoi uomini di due o tre polli a testa anziché di un gran numero di prigionieri, e considerare il possesso di qualche maiale «l’apice della felicità umana»”.
Una situazione questa che si sarebbe ripetuta in modo ancora più evidente nell’ultima offensiva della Duplice Monarchia nel giugno del 1918 sul Piave.
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