Trieste Libera

LE CINQUE CROCI

LE CINQUE CROCI

LE CINQUE CROCI

I contrafforti settentrionali dell’Hermada visti dalla Valle di Brestovizza-Bretovica pri Komn.


Hermada maledetta

“Verso sera ci fermiamo in attesa che il comando di settore ci mandi qualcuno a farci da guida. L’eterno duello di artiglierie di questa zona è ora molto intenso. I cannoni rombano ininterrottamente dietro le alture, luci rosse s’accendono sulle creste, brontolii si levano dalle doline, sibili e mugolii passano sopra le strade e le conche. Riprendiamo la marcia divisi in drappelli.

Ad un certo punto, abbandoniamo la strada, che è tanto battuta da essere in certi punti appena visibile. La nostra guida assicura che staremo molto bene. La posizione assegnataci è stata occupata fino a stamane da una batteria di obici da campagna e si trova in perfetto stato. Inoltre, ha subito pochissimo il fuoco del nemico. Davanti a noi una bassa collina fiammeggia sotto le esplosioni di grosse granate. Nessuno lo chiede, ma tutti sanno che quella è l’Hermada maledetta”.

Das ende einer Armee (Fritz Weber).

Il fronte meridionale dell’Isonzo era cruciale per l’Impero Austroungarico che vedeva il nemico italiano alle porte di una delle più importanti città dell’Impero, nonché suo principale porto: Trieste.

Lungo questo fronte che iniziava a Merna-Miren, una decina di chilometri a sud di Gorizia, per arrivare, seguendo il solco del “Vallone” (attuale S.S.55), fino al Mare Adriatico nella zona paludosa del Lisert antistante le foci del Timavo, si combatterono alcune delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale tra l’Italia e l’Austria-Ungheria.

Un fronte di una trentina di chilometri imperniato sulle alture dominanti il Vallone e i laghi carsici di Doberdò-Doberdob e Pietrarossa-Prelosno, e alle cui spalle si trovava l’ultima linea difensiva che sbarrava la strada verso Trieste: l’Hermada.

Tutte le quote qui avevano un valore strategico, erano modeste colline trasformate in capisaldi difensivi: tanti piccoli castelli – collegati l’uno con l’altro da trincee e camminamenti – che si ergevano nel brullo altopiano carsico avvolti da chilometri e chilometri di filo spinato e di cavalli di Frisia che creavano labirinti insormontabili.

Una rete difensiva creata dai difensori austriaci sfruttando abilmente grotte, doline e ogni anfratto naturale. Fino ad arrivare alla perfezione della “fortezza” Hermada, un’opera ingegneristica di alto livello con le sue grandi caverne blindate, imprendibili per il nemico, e le sue possenti artiglierie che battevano inesorabilmente gli attaccanti fino a 25 Km. Una “bestia indomabile” che sputava fuoco: così la vedevano gli italiani.

Quote 208 Nord e Sud (le “maligne” gemelle), quota 144, quota 146, Flondar, e più indietro la linea di cresta dell’Hermada con le sue cime digradanti (la più alta di 323 metri) verso il mare. E tra queste quote diventate fortini e fortezze qualche sparuto paese (Jamiano-Jamlje, Doberdò-Doberdob, Medeazza-Medja vas, Comeno-Komen, Nova Vas, S. Giovanni di Duino-Štivan) di fantasmi. Perché la guerra aveva cancellato ogni traccia della normalità della vita.

Questo è stato il teatro delle cruente battaglie (7a, 8a, 9a, 10a, 11a dell’Isonzo) per la conquista di Trieste svoltesi tra il settembre del 1916 e l’ottobre del 1917, quando con lo sfondamento di Caporetto la minaccia italiana venne respinta dietro al Piave.

Se oggi ripercorriamo questi luoghi potremo vedere solo monumenti e lapidi che raccontano la storia dei vincitori, o per meglio dire di coloro che furono premiati dalla vittoria degli altri. Perché l’Italia da sola quella guerra contro l’Impero Austroungarico non avrebbe mai potuto vincerla. Un’entrata in guerra quella dell’Italia avvenuta nel maggio del 1915, a seguito del tradimento nei confronti degli ex alleati Austria e Germania, per banchettare con le spoglie dell’Impero Austroungarico: questo era il compenso promesso all’Italia dalle Potenze dell’Intesa.

In questo piccolo lembo di terra racchiuso tra il Carso e il Mare Adriatico in 12 mesi di feroci battaglie persero la vita oltre 200.000 soldati di entrambi gli schieramenti.

L’Italia nonostante la netta superiorità numerica in mezzi e di uomini (almeno il doppio dei difensori) subì cocenti sconfitte con enormi perdite umane che dimostrarono la totale inettitudine dei quadri militari, che peraltro rispecchiavano perfettamente la società italiana, e l’impreparazione di soldati mandati al macello dai loro pomposi e grotteschi ufficiali.

Proprio su questo fronte meridionale dove la resistenza austroungarica fu monolitica la quasi totale assenza di monumenti, cippi, lapidi a ricordo dei reparti Imperial-Regi  (Kaiserlich und Königlich – K.u.K.) che vi combatterono coprendosi di gloria, stride di fronte alla presenza invece di quelli italiani che servono a nascondere la verità sui quei massacri e su quelle sconfitte sanguinose.

La differenza principale tra l’esercito italiano e l’esercito imperiale austroungarico riguardava i metodi operativi.

In quello italiano vigeva il rispetto degli ordini dei superiori che non potevano essere disattesi anche se quasi sempre sbagliati. E questo principio veniva portato al massimo livello, ragion per cui nessun ufficiale inferiore al comandante di divisione o di Corpo d’Armata prendeva iniziative. Si aspettava sempre l’ordine superiore.

A loro volta i comandanti superiori per non rischiare il siluramento sempre sulla soglia da parte del “generalissimo” Cadorna, aspettavano il via libera da quest’ultimo. Una macelleria di guerra con la quale, secondo un preciso piano politico, si voleva consolidare nel sangue l’unione del giovane e imperfetto Stato Italiano da consacrare con il sangue dei suoi poco convinti “cittadini”.

Tradotto sul campo significava non poter decidere nulla che non fosse già stato approvato dal Comando superiore. E questo a livello di brigata, reggimento, battaglione, compagnia. L’adeguamento sul campo di battaglia degli ordini superiori era già considerato insubordinazione. Che per gli ufficiali significava corte marziale e sospensione dal servizio, ma per i soldati significava decimazione e fucilazione immediata. Queste erano le ferree regole di un esercito impreparato alla guerra e che per fare la guerra ammazzava i propri soldati.

Nell’esercito austroungarico, come in quello tedesco, veniva lasciata massima libertà decisionale ai comandanti fino a livello di plotone. Ci si adattava quindi immediatamente agli sviluppi mutevoli della situazione sul campo di battaglia. Gli ufficiali austroungarici sanno sfruttare perfettamente il terreno carsico in cui si trovano a combattere trasformando ogni grotta, ogni dolina in un caposaldo difensivo. Inoltre ufficiali e sottufficiali erano molto meglio addestrati rispetto a quelli italiani pur dovendo scontare le difficoltà di una struttura decisamente più complessa quale era quella dell’esercito Imperiale austroungarico con le sue 15 etnie.

Questa diversa mentalità fu ben visibile, ancor prima che a Caporetto, proprio sul fronte meridionale dell’Isonzo dove le spallate del generalissimo Cadorna e della IIIarmata italiana fallirono anche per le capacità dei reparti austroungarici di reagire sapendosi adattare a quanto stava accadendo sul terreno portando rapidi contrattacchi che aggiravano sui fianchi gli attaccanti facendone collassare l’azione.

Il titolo di questo post “Le cinque croci” è dedicato alle imprese di cinque ufficiali austroungarici: il tenente Johann Fousek, il tenente Theodor Wanke (al quale è dedicato anche il mio primo post sulla storia cancellato di Trieste: LINK), il tenente Friederich Tischer, il tenente Friedrich Franek, il capitano Stanislau Wieronski. Con la loro determinazione, preparazione tattica, e coraggio, riuscirono a contrastare e a respingere forze nemiche enormemente superiori diventando decisivi nel corso delle massicce offensive italiane sul Carso meridionale nel 1916 e 1917.

Per il loro eroismo vennero insigniti con la Croce all’ordine di Maria Theresa, la più alta medaglia al valore dell’Impero austroungarico.

15 settembre 1916, nell’inferno di Quota 208 Nord: Oberleutnant Johann Fousek (IV° Battaglione I.R. 102). “Ritirarsi o arrendersi? Contrattaccare.”

Il 15 settembre 1916 infuria la battaglia per la Quota 208 Nord. Le “maligne gemelle” come vengono chiamate le due Quote 208 affiancate che dominano il Vallone sbarrando la strada dell’altopiano di Comeno alle truppe italiane. Si tratta di due muniti caposaldi austroungarici perni della linea difensiva avanzata del fronte meridionale dell’Isonzo.

A ondate, sotto il tiro delle artiglieri e delle mitragliatrici, e incuranti delle perdite gli attaccanti delle brigate Chieti e Macerata riescono a sfondare la prima linea difensiva austroungarica, conquistano la cima di Quota 208 e ora minacciano una manovra di doppio aggiramento verso nord e sud.

La situazione dei difensori si fa più critica di ora in ora. A difendere la zona si trovano i boemi del IV° battaglione dell’I.R. 102 che costretti ad arretrare utilizzano ogni dolina come nuovo caposaldo. Il comando di battaglione ordina alle tre compagnie schierate di resistere senza cedere un metro, ma la pressione degli italiani è sempre più forte.

Alle 13 il ventiquattrenne Oberleutnant Joahnn Fousek, boemo di Hostim bei Braun, con la sua compagnia di 120 uomini si trova a dovere prendere decisioni determinanti per la sorte dell’intero fronte. Sa che non potrà aspettarsi alcun aiuto in tempi brevi: il suo reparto è isolato. Gli italiani attaccano in massa e se sfondano il settore tenuto dalla sua compagnia dilagheranno alle spalle delle difese delle Quote 208 mettendo a rischio l’intero settore austroungarico.

Cessato il bombardamento, Fousek raggruppa i suoi uomini usciti dai ricoveri in grotta e organizza il fuoco di fucileria contro gli attaccanti arrivati ormai a 30 metri. I boemi riparati dietro i muretti di pietre carsici falcidiano gli avversari, che sorpresi dalla vigorosa reazione tentennano: a questo punto Fousek, pur ferito alla mano, trascina i suoi uomini all’attacco e dopo un furioso combattimento a colpi di bombe a mano respinge i nemici, fa prigioniera un’intera compagnia italiana, e riconquista la Quota 208 Nord alle 14.50 mantenendola fino all’arrivo di un battaglione della Landsturm.

Nell’azione la solitaria compagnia di Fousek si era trovata a confrontarsi contro tre compagnie italiane. Lo sfondamento del 124° reggimento della Brigata Chieti e della 31a divisione italiana viene arrestato dalla vigorosa reazione dei cechi del IV° battaglione dell’I.R. 102 e dal deciso e imprevedibile contrattacco portato con una singola compagnia dal coraggioso Oberleutnant Joahnn Fousek.

10 ottobre 1916, il “leone” di Quota 144: Oberleutnant Theodor Wanke

Il 10 ottobre iniziava l’ottava battaglia dell’Isonzo (LINK). Dopo un massiccio bombardamento durato per giorni e intensificato il 9 ottobre, le truppe italiane si lanciano all’attacco. Nel settore meridionale si cerca lo sfondamento della linea difensiva austroungarica che domina il Vallone tra Doberdò-Doberdob e Jamiano-Jamlie.

Questa è costituita nella sua parte centrale dalle due Quote 208 e in quella terminale dalla Quota 144 sovrastante la depressione di Jamiano e il lago di Doberdò. Su questo fronte opera la 33a divisione con le Brigate Padova e Modena. L’obiettivo qui è di occupare la Quota 144 e nel fondovalle il paese di Jamiano per proseguire quindi verso la zona Flondar – Medeazza – Hermada: l’ultima barriera difensiva austroungarica prima di Trieste.

La punta di lancia dell’offensiva italiana in questo settore è rappresentata dal XLVII° Battaglione bersaglieri che è affiancato dal 42° Reggimento della Brigata Modena. L’attacco deve essere rapido e in profondità per scompaginare le difese nemiche e lasciare alle spalle i nidi di resistenza.

Questo sarebbe anche possibile, in linea teorica, vista la sproporzione tra forze attaccanti e difensori (circa 3:1); ma in pratica è difficilmente realizzabile vista la dura resistenza fino ad allora dimostrata dalle truppe austroungariche. E sarà così anche questa volta. Perché gli ufficiali austroungarici non attendono gli ordini dei superiori, ma agiscono secondo necessità adattandosi a quello che accade sul campo di battaglia.

Così dopo un primo rapido successo che vedeva la conquista di Jamiano da parte dei Bersaglieri che travolgevano l’I.R. 64, le truppe italiane con i loro “pomposi” comandanti gallonati finivano vittime della più classica delle trappole in guerra: aggiramento e accerchiamento da parte degli avversari. Che dalle loro posizioni dominanti sulle alture sovrastanti potevano fare il tiro a bersaglio contro gli improvvidi neo garibaldini sprovvisti di qualsiasi preparazione tattica. Dilettanti contro professionisti, in sintesi. E l’esito è scontato.

Il reparto austroungarico che qui si distinse maggiormente è quello guidato dall’Oberleutnant Theodor Wanke: la 9compagnia dell’I.R. 102 (reggimento formato a maggioranza da cechi della Boemia). Wanke, ufficiale di carriera nato a Iglau nel 1887 da famiglia tedesco-boema, era un ufficiale altamente preparato. Aveva combattuto sul fronte serbo dove era stato ferito meritandosi per il suo valore la Signum Laudis con decorazione di guerra e spade.

Il 10 ottobre la sua compagnia era tenuta in riserva nelle grotte poste alle pendici di Quota 144 e da lì aveva potuto seguire lo svolgersi dell’attacco italiano. Alle 16 Wanke entra in azione. L’offensiva italiana era disordinata, il 117° reggimento della Brigata Padova era stato bloccato sulla linea di Quota 208 Sud, il 42° reggimento della Brigata Modena che era riuscito a sfondare verso Nova Vas si trovò cosi scoperto sul proprio fianco.

I Bersaglieri del 47° battaglione che si erano spinti più avanti di tutti occupando Jamiano si trovarono così esposti senza possibilità di reazione al micidiale contrattacco aggirante della 9compagnia di Wanke: le mitragliatrici nascoste nelle caverne prendevano di fianco e alle spalle gli attaccanti.

Seguiva l’assalto a cui si univa la 10a compagnia dell’I.R. 102, bombe a mano e baionette avevano presto ragione del battaglione dei Bersaglieri costretto a ripiegare nell’abitato di Jamiano e poi a ritirarsi precipitosamente. Il crollo dei Bersaglieri era l’inizio della disfatta su tutto il settore.

Le brigate Modena e Padova, scoperte sul fianco e attaccate dai reparti austriaci venuti a supportare l’azione delle eroiche compagnie guidate dall’Oberleutnant Wanke dovevano ritirarsi precipitosamente lasciando sul terreno centinaia di morti e di prigionieri. Alle 17 l’attacco era respinto in tutto il settore: il fronte difensivo austroungarico teneva senza alcun cedimento grazie ai boemi dell’I.R. 102.

11 ottobre 1916, il Landsturm Infanterie Regiment 11 a difesa di Quota 208 Sud: Oberleutnant Friedrich Tischer. I Landstürmer non cedono.

I’11° Infanterie Regiment della Landsturm aveva combattuto in Galizia prima di essere trasferito sul fronte meridionale dell’Isonzo nell’estate del 1916 dove aveva combattuto duramente sul Veliki Dol a settembre. L’11o Infanterie Regiment era composto per il 40% da tedeschi dei Sudeti.

In vista dell’imminente nuova offensiva italiana, il 5 ottobre il reggimento venne trasferito dalle retrovie per occupare le posizioni difensive della Quota 208 Sud dando il cambio ai provatissimi reparti dell’I.R. 2. Le tre compagnie impegnate furono la 5a, la 7a, l’8a, ed il ruolo principale nelle azioni difensive lo avrebbe avuto la 5a Kompanie dell’Oberleutnant Friedrich Tischer.

Tischer era un veterano di 42 anni, nato a Theusing vicino a Karlsbad, e quando la mattina dell’11 ottobre il suo reparto si insediò, senza aver subito perdite nonostante l’intenso fuoco dell’artiglieria nemica, nelle trincee del 5° settore difensivo dell’Abschnitt 6, si rese subito conto della gravità della situazione. L’attacco della fanteria italiano era imminente e i bombardamenti avevano distrutto le linee telefoniche. La sua compagnia era quindi isolata e poteva comunicare solo con i reparti contigui della suo settore difensivo.

Alle 14 cessava il fuoco dell’artiglieria e le truppe italiane si lanciavano all’attacco. Il suono della fucileria e delle mitragliatrici iniziava da Nord. La difesa austroungarica duramente provata da ore di bombardamento martellante era disarticolata.

Gli italiani si avvicinavano. Tischer comprese che avevano sfondato a nord della Sektion 5 e che ora stavano avanzando sul fianco, e con manovra avvolgente dietro alle sue postazioni difensive puntando verso la strada Nova Vas – Iamiano. La sua compagnia stava quindi per essere accerchiata da forze nemiche preponderanti: erano soli difronte al nemico. Bisognava decidere rapidamente cosa fare. E Tischer lo fece, senza esitazioni.

Mise un piccolo reparto, con tutte le bombe a mano disponibili, a presidiare le postazioni sotto la Quota 208 Sud per impedirne la conquista, mentre lui alla guida di un plotone di 20 uomini andava all’assalto lungo il camminamento “B” verso la Hölen-Doline dove gli italiani erano riusciti a penetrare prendendo alle spalle il Settore 7.

L’attacco era impetuoso, alla baionetta e l’avversario veniva respinto lasciando in mano austriaca 50 prigionieri: il Settore 7 era salvo. Ora Tischer decideva di continuare l’azione per liberare dall’assedio la Quota 208. Con un altro plotone segue il camminamento “A” sotto il fuoco di copertura del suo presidio sferrando un attacco improvviso sul fianco del nemico numericamente molto superiore.

Di fronte all’ardita manovra di Tischer l’intero fronte di attacco italiano sotto la Quota 208 Sud collassa. Dopo aver preso altri 65 prigionieri, Tischer continuava l’azione rastrellando tutta la zona di Quota 208 Sud fino alla retrostante Hölen-Doline catturando molti soldati italiani e liberando il comando di battaglione che era stato fatto prigioniero.

Alle 16 Tischer con la sua 5a compagnia di Landstürmer aveva ripreso completamente il controllo del suo Settore e salvato l’intero fronte meridionale dal tracollo.

25 maggio 1917 davanti all’Hermada: Hauptmann Stanislau Wieronski

Pomeriggio del 25 maggio 1917, è in pieno corso la decima battaglia dell’Isonzo (LINK). Le truppe italiane ora puntano decisamente verso l’Hermada. Lo sforzo maggiore viene concentrato nella lunga Valle di Brestovizza-Brestovica pri Komn, che separa l’altopiano di Comeno-Komen e il Carso isontino dalle contrafforti dell’Hermada e dal Carso triestino.

L’attacco delle Brigate Gaeta e Bergamo fa arretrare le duramente provate truppe austroungariche della 16a divisione fino a Klariči. Ora le ondate d’assalto italiano scavalcano le ultime linee difensive austriache e si inerpicano verso la linea di Quota 146 conquistandola. Sulle ali dell’entusiasmo gli italiani dilagano inseguendo gli avversari in ritirata e oltrepassata la strada per Medeazza-Medja vas si riuniscono con le truppe dell’ala sinistra della 45divisione.

Alcune compagnie della Brigata Bergamo raggiungono la Quota 175, il Flondar e davanti a loro si apre la vista della “fortezza” Hermada: la “bestia indomabile” è ormai a mille metri. Ma non ci arriveranno mai: questo è il punto più profondo dell’avanzata italiana verso Trieste.

Nel loro attacco irruento e disorganico le truppe italiane si sono spinte troppo in profondità lasciando scoperti i fianchi. E il contrattacco è immediato, rapido, efficace. E viene condotto, anche questa volta, da reparti austroungarici isolati che  naturalmente non aspettano gli ordini dei comandi superiori.

L’Hauptmann Stanislau Wieronski, esperto ufficiale polacco, guida tre compagnie del III° battaglione dell’I.R. 11 formato quasi interamente da cechi, contrattacca gli italiani. I cechi lanciano le loro bombe a mano prendendo di sorpresa i fanti della Bergamo che iniziano una ritirata precipitosa abbandonando Quota 175. Wieronski non dà tregua e lancia le sue truppe all’inseguimento degli italiani in rotta verso Quota 145. Con le sue tre compagnie ridotte a 240 uomini l’Hauptmann Wieronski riesce a sgominare un reggimento italiano e a capovolgere le sorti della battaglia.

Ora anche altri reparti austoungarici si riorganizzano e si uniscono al contrattacco: sono i fanti superstiti del IV° Battaglione dell’I.R. 77 e del I° Battaglione dell’I.R. 62. Gli italiani vengono ricacciati fino alla linea del Flondar: la prima spallata verso l’Hermada fallisce sanguinosamente.

21 agosto 1917, un piccolo eroe “viennese”: Oberleutnant Friedrich Franek

L’undicesima battaglia dell’Isonzo è l’ultima spallata di Cadorna sul fronte meridionale dell’Isonzo prima di Caporetto. E sarà la più sanguinosa di tutte le battaglie della Grande Guerra sul fronte meridionale. Duecento ottantamila perdite complessive di entrambi gli schieramenti: un mattatoio.

L’obiettivo dell’esercito italiano è sempre quello: conquistare Trieste aggirando le potenti linee difensive austroungariche. L’offensiva si svolge a Nord con l’avanzata sulla Bainsizza (LINK), a Sud con il solito rinnovato attacco frontale contro l’Hermada. Qui le truppe italiane cercano l’ultimo balzo partendo dalle posizioni occupate durante la decima battaglia che li avevano portati ad attestarsi sulla linea del Flondar.

Sono circa due chilometri quelli da coprire per arrivare sotto le cime dell’Hermada. Ma sono una specie di inferno pieno di trappole difensive, cavalli di Frisia, postazioni incavernate di mitragliatrici, trincee su più linee in profondità. E poi la micidiale artiglieria della fortezza Hermada che batte ogni centimetro davanti a sé.

L’unica possibilità per un attacco con qualche speranza è di distruggere le difese austroungariche con un bombardamento di artiglieria a tappeto. E così si procede. L’Hermada per giorni viene scosso dai tiri continuati dell’artiglieria italiana: sembra un vulcano in eruzione. Le truppe austriache nell’attesa dell’inevitabile attacco delle fanterie italiane si rifugiano nei ricoveri in caverna, ma le perdite sono comunque elevate.

Il 21 agosto le divisioni della IIIA Armata Italiana si muovono all’attacco: due Corpi d’Armata contro tre divisioni austroungariche. La lotta è ferocissima e si arriva spesso al corpo a corpo. Ma le ondate delle fanterie italiane vengono falciate anche questa volta dalle schwarzlose e dai mannlicher austriaci. Sul Flondar gli ultimi superstiti della 12a divisione austroungarica vengono rilevati prima del totale annientamento dai fanti della 9a, i cechi della 9a.

Un’altra divisione austroungarica che si era battuta duramente nella zona del Flondar nei primi tre giorni era la 35a transilvana il cui 63° reggimento formato per tre quarti da soldati rumeni ebbe un ruolo determinante nel far fallire l’attacco italiano sull’Hermada.

Il ventiseienne Franek, viennese, era un ufficiale preparato ed esperto. Aveva combattuto sin dall’inizio della guerra con il 63° reggimento ed era stato ferito gravemente due volte alla testa in Galizia e nei Carpazi ricevendo numerose decorazioni per il suo eroismo. Dopo la lunga convalescenza venne riassegnato al suo reparto trasferito sul fronte meridionale dell’Isonzo. E anche qui Franek si sarebbe coperto di gloria.

Il 21 agosto la 17compagnia di Franek si trova nei ricoveri in caverna per ripararsi dai bombardamenti di annientamento italiani. Per tre giorni con l’intero 63° I.R. i fanti rumeni avevano resistito ai continui e massicci attacchi italiani tra Quota 146 e il Flondar, ma alla fine avevano dovuto cedere posizioni riportando forti perdite.

Ora, il quarto giorno di attacchi le compagnie del 63° sono stremate e isolate anche tra di loro, e senza contatti con il comando reggimentale e quelli superiori.

Si sa solo che bisogna resistere a oltranza, in attesa dei rinforzi. I fanti italiani sfruttando il bombardamento sono arrivati a ridosso di due grotte dove si trova ricoverata una parte della  compagnia di Franek: i rumeni sono ora in trappola.

Franek si trova, con un plotone, in un altro ricovero caverna, non ancora raggiunto dalle sopravanzanti truppe italiane, riorganizza i suoi uomini e decide di attaccare il nemico. Quelli che escono dalle viscere del Carso sono spettri, uomini che combattono ininterrottamente da quattro giorni e che da quattro giorni subiscono nelle loro “tane” sotterranee i pesanti bombardamenti dell’artiglieria italiana.

Le pareti e le volte delle grotte che sono il rifugio di questi soldati tremano sotto i colpi di maglio dell’artiglieria pesante italiana. Sembrano cedere, si ha paura di rimanere intrappolati lì sotto se un colpo dovesse centrare l’ingresso. Si sopravvive nell’angoscia, attendendo un orribile fine.

Fino al cessare del fuoco dell’artiglieria che significa l’inizio dell’attacco della fanteria italiana, annunciato dalla fucileria, dalle raffiche di mitragliatrice, dalle esplosioni delle bombe a mano e dalle urla “Savoia”. Si può finalmente uscire dalla propria bara per combattere con il cielo sopra la testa, come uomini finalmente, anche se ormai abbruttiti dalla guerra: è comunque una liberazione, anche se si dovrà morire.

Franek e i suoi 30 sopravvissuti attaccano con decisione le truppe italiane sopraggiungenti e le travolgono. I rumeni sono inarrestabili, e i loro “Hurra!” ne moltiplicano il numero e la forza, lanciano  granate e attaccano alla baionetta. Gli italiani, anche se superiori di numero, si ritirano affrettatamente sopresi dalla veemenza della reazione.

Franek non perde tempo e attacca alle spalle e ai fianchi i reparti italiani che hanno intrappolato il resto della sua compagnia nelle due caverne sotto Quota 146. Anche qui l’assalto con baionette, pugnali, vanghe e bombe a mano è letale per il morale degli italiani che presi tra due fuochi sono ora costretti a ritirarsi a rotta di collo.

Franek ha così riunito l’intera compagnia salvandola dall’annientamento. Ma non si accontenta. Sfruttando il cedimento italiano nel suo settore, e per non permettere agli avversari di riorganizzarsi, prosegue l’attacco pistola in pugno alla testa dei suoi uomini, liberando altri reparti austroungarici del 63° bloccati nelle loro caverne che rischiavano di diventare le loro tombe. Entro la sera grazie all’energica reazione dell’Oberleutnant Friedrich Franek, l’intero settore di Quota 146 – Flondar è di nuovo saldamente nelle mani dei difensori austroungarici.

Tratto dal blog “Ambiente e Legalità”di Roberto Giurastante

2 pensieri su “LE CINQUE CROCI

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