UN “PICCOLO EROE” VIENNESE
L’undicesima battaglia dell’Isonzo è l’ultima spallata di Cadorna sul fronte meridionale dell’Isonzo prima di Caporetto. E sarà la più sanguinosa di tutte le battaglie della Grande Guerra sul fronte meridionale. Duecento ottantamila perdite complessive di entrambi gli schieramenti: un mattatoio.
L’obiettivo dell’esercito italiano è sempre quello: conquistare Trieste aggirando le potenti linee difensive austroungariche. L’offensiva si svolge a Nord con l’avanzata sulla Bainsizza (LINK), a Sud con il solito rinnovato attacco frontale contro l’Hermada.
Qui le truppe italiane cercano l’ultimo balzo partendo dalle posizioni occupate durante la decima battaglia che li avevano portati ad attestarsi sulla linea del Flondar. Sono circa due chilometri quelli da coprire per arrivare sotto le cime dell’Hermada. Ma sono una specie di inferno pieno di trappole difensive, cavalli di Frisia, postazioni incavernate di mitragliatrici, trincee su più linee in profondità. E poi la micidiale artiglieria della fortezza Hermada che batte ogni centimetro davanti a sé.
L’unica possibilità per un attacco con qualche speranza è di distruggere le difese austroungariche con un bombardamento di artiglieria a tappeto. E così si procede. L’Hermada per giorni viene scosso dai tiri continuati dell’artiglieria italiana: sembra un vulcano in eruzione. Le truppe austriache nell’attesa dell’inevitabile attacco delle fanterie italiane si rifugiano nei ricoveri in caverna, ma le perdite sono comunque elevate.
Il 21 agosto le divisioni della IIIA Armata Italiana si muovono all’attacco: due Corpi d’Armata contro tre divisioni austroungariche. La lotta è ferocissima e si arriva spesso al corpo a corpo. Ma le ondate delle fanterie italiane vengono falciate anche questa volta dalle schwarzlose e dai mannlicher austriaci.
Sul Flondar gli ultimi superstiti della 12a divisione austroungarica vengono rilevati prima del totale annientamento dai fanti della 9a, i cechi della 9a.
Un’altra divisione austroungarica che si era battuta duramente nella zona del Flondar nei primi tre giorni era la 35a transilvana, il cui 63° reggimento formato per tre quarti da soldati rumeni ebbe un ruolo determinante nel far fallire l’attacco italiano sull’Hermada.
Il ventiseienne Franek, viennese, era un ufficiale preparato ed esperto. Aveva combattuto sin dall’inizio della guerra con il 63° reggimento ed era stato ferito gravemente due volte alla testa in Galizia e nei Carpazi ricevendo numerose decorazioni per il suo eroismo. Dopo la lunga convalescenza venne riassegnato al suo reparto trasferito sul fronte meridionale dell’Isonzo. E anche qui Franek si sarebbe coperto di gloria.
Il 21 agosto la 17a compagnia di Franek si trova nei ricoveri in caverna per ripararsi dai bombardamenti di annientamento italiani. Per tre giorni con l’intero 63° I.R. i fanti rumeni avevano resistito ai continui e massicci attacchi italiani tra Quota 146 e il Flondar, ma alla fine avevano dovuto cedere posizioni riportando forti perdite.
Ora, il quarto giorno di attacchi le compagnie del 63° sono stremate e isolate anche tra di loro, e senza contatti con il comando reggimentale e quelli superiori. Si sa solo che bisogna resistere a oltranza, in attesa dei rinforzi. I fanti italiani sfruttando il bombardamento sono arrivati a ridosso di due grotte dove si trova ricoverata una parte della compagnia di Franek: i rumeni sono ora in trappola.
Franek si trova, con un plotone, in un altro ricovero caverna, non ancora raggiunto dalle sopravanzanti truppe italiane, riorganizza i suoi uomini e decide di attaccare il nemico. Quelli che escono dalle viscere del Carso sono spettri, uomini che combattono ininterrottamente da quattro giorni e che da quattro giorni subiscono nelle loro “tane” sotterranee i pesanti bombardamenti dell’artiglieria italiana.
Le pareti e le volte delle grotte che sono il rifugio di questi soldati tremano sotto i colpi di maglio dell’artiglieria pesante italiana. Sembrano cedere, si ha paura di rimanere intrappolati lì sotto se un colpo dovesse centrare l’ingresso. Si sopravvive nell’angoscia, attendendo un orribile fine.
Fino al cessare del fuoco dell’artiglieria che significa l’inizio dell’attacco della fanteria italiana, annunciato dalla fucileria, dalle raffiche di mitragliatrice, dalle esplosioni delle bombe a mano e dalle urla “Savoia”. Si può finalmente uscire dalla propria bara per combattere con il cielo sopra la testa, come uomini finalmente, anche se ormai abbruttiti dalla guerra: è comunque una liberazione, anche se si dovrà morire.
Franek e i suoi 30 sopravvissuti attaccano con decisione le truppe italiane sopraggiungenti e le travolgono. I rumeni sono inarrestabili, e i loro “Hurra!” ne moltiplicano il numero e la forza, lanciono granate, e attaccano alla baionetta. Gli italiani, anche se superiori di numero, si ritirano affrettatamente sorpresi dalla veemenza della reazione.
L’Oberleutnant non perde tempo e attacca alle spalle e ai fianchi i reparti italiani che hanno intrappolato il resto della sua compagnia nelle due caverne sotto Quota 146. Anche qui l’assalto con baionette, pugnali, vanghe e bombe a mano è letale per il morale degli italiani che presi tra due fuochi sono ora costretti a ritirarsi a rotta di collo.
L’intera compagnia è riunita; Franek l’ha salvata dall’annientamento. Ma non si accontenta. Sfruttando il cedimento italiano nel suo settore, e per non permettere agli avversari di riorganizzarsi, prosegue l’attacco pistola in pugno alla testa dei suoi uomini, liberando altri reparti austroungarici del 63° bloccati nelle loro caverne che rischiavano di diventare le loro tombe.
Entro la sera grazie all’energica reazione dell’Oberleutnant Friedrich Franek, l’intero settore di Quota 146 – Flondar è di nuovo saldamente nelle mani dei difensori austroungarici.
Tratto dal blog “Ambiente e Legalità” di Roberto Giurastante
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