4 giugno 1917: la “piccola Caporetto sul Carso”
“Si rammenti che sul Carso abbiamo contro truppe particolarmente addestrate all’esecuzione di attacchi improvvisi e violenti”
Generale Luigi Cadorna Comandante in capo dell’Esercito italiano, con riferimento alle azioni delle “Sturmtruppen” austro-ungariche – estate 1917
Il 12 maggio 1917 inizia la nuova grande offensiva italiana sul fronte del fiume Isonzo-Soča: è la decima battaglia. L’obiettivo italiano è la presa di Trieste da attuarsi con un attacco su un fronte di 50 Km da Gorizia al Mare Adriatico. La prima fase dell’offensiva condotta dalla 2 Armata si sviluppa nel Medio Isonzo con l’intento di creare un diversivo per costringere la 5a Armata austro-ungarica a sguarnire il settore meridionale dove avverrà l’attacco principale portato dalla 3a Armata del Duca d’Aosta.
Nel settore di Gorizia l’obiettivo è il margine occidentale dell’altopiano della Bainsizza (Banjščica) previa conquista dei forti capisaldi austriaci dei Monti Vodice, Sveta Gora-Heiligenberg-Monte Santo, e San Gabriele-Škabrijel. Lo sfondamento sull’altopiano della Bainsizza consentirebbe agli italiani di minacciare da tergo la linea difensiva austro-ungarica del settore meridionale basata sull’imprendibile “fortezza Hermada”.
Dopo due giorni di pesanti bombardamenti le truppe italiane vanno all’attacco ma non riescono a sfondare: le difese austro-ungariche del medio Isonzo tengono e le perdite italiane sono elevatissime.
I sanguinosi attacchi frontali contro posizioni imprendibili continueranno senza sosta fino al 28 maggio, ma l’obiettivo principale di distogliere le forze K.u.K. dal basso Isonzo sguarnendo così il settore del Monte Hermada-Grmada è intanto fallito.
Il 23 maggio – secondo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia – la 3a Armata italiana passa all’attacco nel basso Isonzo: l’obiettivo è di scardinare la possente linea difensiva austro-ungarica che corre dal Dosso Faiti-Fajiti hrib a Kostanjevica-Castagnevizza, fino al M.te Hermada.
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Il M.te Hermada, che ne costituisce il tratto terminale fino al Mare Adriatico, è una lunga serie di colline che sbarrano la strada per Trieste; il primo porto dell’Impero dista appena venti chilometri dall’Hermada: venti chilometri che separano la Terza Armata Italiana dalla gloria.
Ma l’Hermada è lo stato dell’arte delle difese austro-ungariche e racchiude in se tutti gli insegnamenti appresi in tre anni di guerra; è un’opera difensiva mastodontica che completa perfettamente le già poderose difese dell’Imperial Regio esercito (K.u.K. ) del settore Medio Isonzo-Bainsizza.
La “fortezza Hermada” è protetta da una serie di linee difensive parallele che iniziano poco oltre Jamlje-Jamiano (lago di Doberdob-Doberdò-quota 144), per culminare nella zona del Flondar (quote 176 e 146) scendendo da qui fino al mare (Štivan-San Giovanni di Duino, foci del Timavo-Timav).
Oltre il Flondar si trova Medeazza con l’ultima linea difensiva alle pendici dell’Hermada. Ogni linea difensiva è costituita da trincee parallele difese da reticolati con metri di filo spinato e cavalli di frisia, dietro ai quali si celano nidi di mitragliatrici.
Molte le grotte utilizzate dai reparti K.u.K. come ricovero e in cui sono occultate abilmente ulteriori postazioni di mitragliatrici che possono prendere di infilata gli attaccanti. Dalle posizioni dominanti i soldati K.u.K. hanno poi perfettamente il campo libero per il tiro con i loro fucili Mannlicher a ripetizione, micidiali fino a quattrocento metri.
E poi, dietro queste linee difensive che lo proteggono, c’è l’Hermada: quelle “placide colline” che digradano fino al mare sono irte di cannoni e di mitragliatrici, e piene di ricoveri scavati nella roccia carsica. L’Hermada è un fortezza sotterranea che ospita migliaia di uomini proteggendoli nelle sue viscere: è un capolavoro del genio militare austro-ungarico.
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L’Hermada è anche la base dell’artiglieria austro-ungarica del Basso Isonzo, con i suoi punti di osservazione e le batterie pesanti con i pezzi da 240, 305, 350, 380, 420 millimetri, che tempestano le truppe italiane fino a 30 Km di distanza. E poi l’artiglieria media, quella imperniata sui pezzi da 75, 100, 150, che spazzano inesorabilmente per migliaia di metri il terreno antistante con i loro tiri diretti.
Un attacco frontale sembra impossibile, anche superando il tremendo sbarramento di artiglieria, sarebbe come andare a una fucilazione di massa: un suicidio collettivo. Ma è questo l’unico piano predisposto dagli strateghi italiani ossequiosi alle direttive del “generalissimo” Cadorna: bombardamento a tappeto e attacco frontale. Che l’Italia ha ancora a disposizione notevoli riserve di uomini, di carne da macello, da sacrificare nel nome della Patria.
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All’alba del 23 maggio l’artiglieria italiana annuncia l’attacco seppellendo il fronte meridionale sotto un impressionate bombardamento. Dalle 6 alle 16 il cannoneggiamento spazza i 18 Km della linea difensiva austroungarica.
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L’obiettivo principale del fuoco di annientamento è l’Hermada che, preso sotto il tiro incrociato delle artiglierie pesanti che da Punta Sdobba (foci dell’Isonzo dove sono installate le batterie della Marina Italiana con i loro pezzi da 381) al De Bela Griža-S. Michele e alla pianura isontina, sembra un vulcano in eruzione.
In dieci ore un milione di colpi devasta le linee difensive austro-ungariche del Carso: 56 granate per ogni metro di fronte. In molti punti i reticolati sono divelti e le trincee sconvolte.
Alle 16 la fanteria italiana scatta all’assalto; ondata dopo ondata, reggimenti su reggimenti, le truppe italiane si riversano sull’altopiano carsico nel disperato tentativo di occupare le quote dominanti che qui sono colline con la loro tragica denominazione di “quota”: 432, 379, 276, 247, 242, 241, 235, 175, 146, 144, 77, e molte altre.
Gli attacchi italiani e i contro attacchi austro-ungarici vanno avanti ininterrottamente per sei giorni. I combattimenti sono violentissimi con migliaia di morti e atti di eroismo da entrambe le parti.
Nella parte settentrionale dell’altopiano di Komen-Comeno, Kostanjevica-Castegnevizza difesa dagli Honvéd viene conquistata dagli italiani e riconquistata dagli austro-ungarici con un rapido e violento contrattacco con combattimenti corpo a corpo. Gli stessi Honvéd chiusi nella sacca di Hudi Log mantengono le posizioni senza alcun cedimento e fino all’ultimo uomo.
Più a sud le truppe italiane riescono a sfondare a est di Jamiano arrivando sulla sommità della Fornaza e occupando la quota 77 “Sablici”. Il successivo contro attacco degli ungheresi e dei rumeni del 37° reggimento K.u.K. porta alla riconquista parziale delle posizioni.
Lo sfondamento principale avviene sul Flondar dove le truppe della Terza Armata italiana riescono a consolidare le posizioni dopo quattro giorni di durissimi combattimenti arrivando nel punto della loro massima avanzata fino a Medja vas-Medeazza alle pendici dell’Hermada.
Su un fronte di una ventina di chilometri la Terza Armata italiana è riuscita ad avanzare per una profondità massima di due chilometri a prezzo di perdite spaventose. Questo il risultato ottenuto al termine della decima battaglia dell’Isonzo il 28 maggio.
Ma la perdita del Flondar tre chilometri a nord ovest dell’Hermada rappresenta per gli austro-ungarici un problema di non poco conto. Gli italiani si trovano ora a ridosso della “fortezza Hermada” ed i K.u.K. hanno dovuto arretrare la propria artiglieria avendo pure perso punti di osservazione essenziali, e il Flondar rappresenta ora la base di partenza per le future azioni italiane contro l’Hermada.
Terminata l’offensiva italiana i comandi della 5a Armata austro-ungarica decidono quindi una controffensiva per rettificare il fronte meridionale al fine di alleggerire le posizioni antistanti l’Hermada. L’attacco viene preparato rapidamente e approvato dal Feldmaresciallo Boroević.
Per la prima volta sul fronte dell’Isonzo vengono impiegate in forze le neo costituite truppe d’assalto, le “Sturmtruppen”. L’obiettivo è di riconquistare le alture dominanti del Flondar e rioccupare la vecchia linea difensiva fino a San Giovanni di Duino (foci del Timavo). Vengono impiegati reparti delle divisioni 28a e 35a, delle brigate alpine XIa e XIIa, oltre al 28o reggimento di fanteria di Praga.
L’azione principale viene preceduta il 3 giugno da un attacco diversivo svolto più a nord sul Fajti (quota 432). Alle 21 le truppe K.u.K. del 39o reggimento vanno all’assalto del Fajti occupandone la cima; gli italiani ingannati preparano la controffensiva, ma alla mattina le truppe K.u.K. sgomberano in fretta la posizione sferrando invece il colpo principale più a sud, verso il mare.
All’alba del 4 giugno l’artiglieria K.u.K. apre un intenso fuoco di artiglieria sulle postazioni italiane davanti all’Hermada; il fuoco di annientamento dura solo 40 minuti ma sconvolge le trincee ora occupate dai fanti italiani causando molte vittime.
Sotto questa grandinata di ferro e fuoco molti reparti italiani si rifugiano nelle numerose caverne riattate a rifugi e nei due tunnel ferroviari della linea Monfalcone-Trieste, tra San Giovanni di Duino e il Flondar che diventeranno per loro delle trappole.
Le Sturmtruppen austro-ungariche sono le prime ad entrare in azione. Qui partecipa l’intero battaglione (Sturmbaon), da poco costituito, della 5a Armata; sono quattro compagnie (1a, 2a, 3a, più la compagnia mezzi pesanti) con circa 600 uomini.
Il compito assegnato alle Sturmtruppen è fondamentale e da esso dipende il successo dell’attacco che si svolge su di un fronte di 6 Km da Medeazza al mare. Si tratta di scardinare le linee difensive italiane, penetrarvi e tenere aperti i varchi per consentire l’irruzione dei reparti K.u.K. attaccanti che dilagheranno alle spalle delle truppe italiane chiudendole in una morsa avvolgente.
Le Sturmtruppen scattano all’attaccano prima ancora che il fuoco della propria artiglieria sia cessato arrivando così, sfruttando la copertura dell’artiglieria pesante K.u.K. dell’Hermada che causa loro qualche perdita, ad occupare le posizioni assegnate di quota 175 (Flondar) e quota 146.
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Le truppe italiane sono completamente sorprese nei loro rifugi in caverna. Le quattro compagnie d’assalto austro-ungariche occupano rapidamente i punti chiave delle trincee, sistemano le mitragliatrici per coprire i settori esposti, e “ripuliscono” con bombe a mano ed esplosivi le grotte utilizzate dai reparti italiani come rifugio. Gli italiani si arrendono in massa: le Sturmtruppen fanno più di 2.000 prigionieri.
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Prima che i comandi della 3a Armata italiana possano organizzare una reazione le truppe austro-ungariche attaccanti sono già penetrate nelle brecce aperte e tenute dalle Sturmtruppen rioccupando la vecchia linea difensiva e prendendo alle spalle interi reparti italiani.
Nell’azione si distingue in particolare il 28o reggimento di fanteria comandato dal maggiore Meergans che si copre di gloria combattendo duramente a San Giovanni di Duino, riprendendo il controllo della precedenti postazioni e respingendo fino a sera i reiterati contrattacchi italiani. La vittoria costa però cara ai ceki del 28o reggimento che lasciano sul campo i due terzi dei propri effettivi tra morti e feriti.
Nel loro rapido sfondamento le truppe austro-ungariche sbaragliano quattro brigate italiane e fanno migliaia di prigionieri: a fine giornata se ne conteranno ben diecimila (migliaia di soldati rimangono intrappolati e fatti prigionieri nei due tunnel ferroviari tra San Giovanni di Duino e il Flondar) e un enorme quantità di materiale bellico, tra cui 100 mitragliatrici.
Il successo è totale: in poche ore con un’operazione condotta magistralmente da reparti ben addestrati la 5a Armata austro-ungarica riprende buona parte del terreno perso sul fronte meridionale nel corso della decima offensiva dell’Isonzo. Il ruolo delle Sturmtruppen è fondamentale, come messo in evidenza dallo stesso comando del IIIo settore difensivo austro-ungarico nel proprio rapporto:
“la riconquista di 3 nostri cannoni, la cattura di 10.000 prigionieri e 100 MG nel contrattacco sulla linea di Flondar sono, se si considera che la maggior parte delle truppe non era abituata al Carso, non in piccola parte un merito delle truppe d’assalto. In ogni caso esse hanno aperto vittoriosamente la strada alle truppe attaccanti nelle posizioni nemiche”.
Un successo che alle Sturmtruppen costa perdite elevate: 24 morti, 98 dispersi e 163 feriti; che tradotto in percentuali significa il 50% delle forze impegnate.
È questo il primo impiego su larga scala delle truppe d’assalto K.u.K., che dimostrano la loro brutale efficacia che verrà poi confermata, pochi mesi dopo, nella dodicesima battaglia dell’Isonzo: la vittoria di Caporetto-Kobarid.
Anche la decima battaglia dell’Isonzo si chiude con la consueta carneficina voluta dagli alti comandi italiani fedeli esecutori della strategia del “generalissimo” Luigi Cadorna. Le perdite del Regio Esercito sono tremende e ammontano a 36.000 morti, 96.000 feriti, 25.000 dispersi.
Le perdite della 5a Armata austroungarica, che per la sua indomita resistenza riceve il 24 maggio 1917 dall’Imperatore Carlo la denominazione ufficiale di “Isonzo Armee”, sono di circa 8.000 morti, 47.000 feriti, 25.000 dispersi e prigionieri. L’esercito italiano perde 157.000 dei 280.000 effettivi delle sue Armate schierate sul fronte del Medio Isonzo (il 56% delle forze disponibili).
L’imperial-regio esercito austro-ungarico perde 80.000 uomini su una forza totale di 160.000 (il 50% delle forze disponibili).
Ma la lezione della decima battaglia dell’Isonzo non è sufficiente agli “strateghi” italiani, e di lì a poco un nuovo grande massacro verrà offerto agli dei della guerra: si prepara la battaglia della Bainsizza.
Tratto dal blog “Ambiente e Legalità” di Roberto Giurastante
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