C’è una procedura standard che accomuna ogni situazione di emergenza sanitaria. Si tratta della prevenzione, ovvero la preparazione a gestire l’emergenza. Per ogni grande rischio sanitario, dalle epidemie, alle emergenze radiologiche, alle emergenze degli impianti industriali, alle catastrofi naturali, deve essere predisposto il necessario piano di emergenza esterno del quale la prevenzione è parte indissolubile e fondamentale.
Senza la prevenzione le conseguenze di un incidente ad impianti industriali, a centrali nucleari, di un’epidemia, di un terremoto, di un’eruzione vulcanica, sarebbero più serie. Cioè più persone irradiate, contagiate, esposte agli agenti chimici, infettate, esposte agli effetti della catastrofe. Quindi più persone da curare ospedalizzandole e alla fine più morti.
La prevenzione serve appunto a ridurre il numero di persone esposte al rischio e quindi a contenerne gli effetti. Ecco perché è così importante da essere stata inserita in tutti i protocolli internazionali, europei, statali sui grandi rischi.
La prevenzione è l’anima di ogni serio piano di emergenza.
Perché la prevenzione è quella fase che precede l’emergenza e che serve per poterla affrontare al meglio, riducendo così anche il panico tra la popolazione. La prevenzione è pianificazione e seria organizzazione: esattamente il contrario dell’improvvisazione.
La fase di prevenzione prevede che per ogni emergenza vengano create le strutture necessarie attrezzate per affrontarla. Che ci siano quindi sufficienti posti letto negli ospedali con i reparti attrezzati per ogni tipo di situazione di crisi (stanze di isolamento, terapia intensiva, decontaminazione). E che le scorte di medicinali e le dotazioni di materiali per la protezione personale (maschere protettive, guanti, tute) siano sufficienti anche per la popolazione potenzialmente esposta.
E poi appena l’emergenza viene dichiarata lo Stato deve informare tutti i cittadini sui comportamenti da adottare, e per questo non è sufficiente affidarsi ai media e alla comunicazione istituzionale in rete (non tutti i cittadini hanno l’accesso a internet): bisogna fare arrivare la comunicazione direttamente via posta ad ogni cittadino.
Come per esempio fatto proprio nell’emergenza del Coronavirus dalla Slovenia che oltre a pubblicare sul sito dell’Istituto Nazionale di salute pubblica le istruzioni per l’emergenza ha mandato a casa di ogni cittadino le istruzioni stampate su un volantino (LINK).
Se queste sono le premesse necessarie per affrontare ogni seria emergenza sanitaria, allora più di qualcosa non ha funzionato nell’attuale gestione italiana dell’epidemia del Coronavirus. Pare infatti che sia mancata proprio la prima fase, quella della prevenzione catapultando così l’intero Paese in una drammatica emergenza diventata una sorta di coprifuoco prolungato con chiusura progressiva delle attività produttive. E ancora dopo tre settimane i cittadini attendono vengano loro fornite le indispensabili mascherine protettive, introvabili perché semplicemente non erano state create le scorte necessarie.
Quanti cittadini erano informati dell’esistenza di un piano di emergenza per le pandemie?
E chi aveva l’obbligo di fornire l’informazione? Per legge l’obbligo è dello Stato che con il suo Governo deve predisporre tutte le informazioni necessarie da dare ai cittadini sul rischio potenziale. E deve farlo prima che scoppi l’emergenza, poi non c’è più tempo. Ma perché non è stato fatto? Perché la prevenzione costa… informare i cittadini dei rischi e prepararli ad affrontarli costa… e allora si lasciano i piani di emergenza inattuabili nei cassetti, e si improvvisa se poi l’epidemia, l’incidente, il terremoto, capita sul serio.
L’informazione tempestiva su ogni stato di emergenza a livello internazionale dipende certamente dal primo Paese colpito dalla crisi, in questo caso la Cina: prima vengono diffuse le notizie prima si permette anche agli altri di attivare le difese.
Ritardi nella diffusione delle informazioni da parte del primo Paese in cui ha avuto origine l’epidemia si ripercuotono inevitabilmente su tutti gli altri Paesi che vengono poi investiti dall’emergenza. Ecco perché, non potendo ancora contare su un efficace, rapido e completo scambio di informazioni a livello internazionale è assolutamente necessario avere dei piani di emergenza collaudati e immediatamente operativi in caso di necessità.
Purtroppo, a livello mondiale, siamo ancora lontani da questo obiettivo.
E l’Italia, Paese europeo attualmente più colpito dal Coronavirus, ha forti ritardi nell’attuazione di una seria politica di prevenzione sui grandi rischi.
Un caso di studio utile, perché riguarda un problema certamente noto per motivi anche militari fin dal 1945, è quello delle emergenze radiologiche. Chernobyl e Fukushima sono gli incidenti ad impianti nucleari civili che hanno avuto conseguenze planetarie. I protocolli di emergenza internazionali sono stati potenziati dal 1986 portando alla realizzazione di normative sempre più stringenti sulla prevenzione.
Ma l’Italia anche nel caso delle emergenze radiologiche non ha attuato, ad esempio, le normative comunitarie di riferimento che prevedono l’obbligatoria campagna di informazione preventiva della popolazione venendo per questo deferita dalla Commissione Europea alla Corte di Giustizia Europea. Accadeva nel 2006 a seguito della denuncia sulla mancata predisposizione dei piani di emergenza esterni in caso di incidente alla vicina centrale nucleare di Krško (Slovenia).
Per capire come non funziona la macchina della prevenzione italiana vale la pena leggersi proprio il dossier sull’elusione italiana della normativa EURATOM pubblicato sul sito di Greenaction Transnational (LINK).
È sempre molto attuale perché spiega come la macchina amministrativa italiana è troppo burocraticizzata, complessa, e inefficiente rendendo alla fine impossibile l’attuazione delle normative in materia di prevenzione delle emergenze (questo vale anche per la violazione della Direttiva Seveso per i rischi degli impianti industriali).
Dopo l’incidente alla centrale di Krško del 4 giugno del 2008, l’altra settimana un forte terremoto ha scosso Zagabria con epicentro a 35 Km dalla centrale nucleare più pericolosa d’Europa. Bene, da venti anni si è in attesa che in Italia predispongano i piani di emergenza radiologici attuandone il contenuto e informando i cittadini, sia italiani che dell’attuale Territorio Libero di Trieste, la cui amministrazione civile è sub-affidata dal 1954 al Governo Italiano, che ha perciò l’obbligo di tutelare tramite i propri organi e funzionari anche la popolazione amministrata (LINK).
Nel frattempo, il 25 luglio del 2019 l’Italia è stata nuovamente deferita alla Corte di Giustizia Europea per mancata applicazione delle nuove normative Euratom (direttiva 2013/59) che stabiliscono fondamentali protocolli di sicurezza relative alla protezione dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti.
L’emergenza del Coronavirus dimostra una volta di più la necessità di cambiare mentalità.
Per gestire queste situazioni di crisi complesse è necessario avere uno Stato che funzioni perfettamente con tutte le sue strutture, pubbliche e private. Ed è necessario investire fondi nella prevenzione formando per questo ogni cittadino, a partire dalle scuole. I piani di emergenza non devono più rimanere nei cassetti ma devono essere messi a disposizione dei cittadini. E la sanità deve essere potenziata, non subire continui tagli di spesa.
Un’ultima considerazione va alle polemiche in questi giorni difficili. Comprensibili, di fronte a fatti tanto drammatici, quelle dei cittadini già stremati da anni di crisi economica, che rischiano di trovarsi sul lastrico perché l’emergenza sanitaria è anche collasso del sistema produttivo: loro sono le vittime impotenti di uno Stato inefficiente e corrotto.
Di pessimo gusto invece quelle di una classe politica, quale quella italiana, che senza distinzione alcuna è pienamente responsabile di un malgoverno che ha portato negli ultimi quaranta anni anche alla sottovalutazione dei grandi rischi e alla disapplicazione delle fondamentali norme di tutela della popolazione (il caso riportato delle emergenze radiologiche ne è un esempio illuminante).
Tratto dal blog “Ambiente e Legalità” di Roberto Giurastante